Mia madre, in occasione dei miei compleanni, mi regalava una camicia fatta a mano.
Ne apprezzavo la morbida e delicata manifattura e, soprattutto, il fatto che si adattasse perfettamente al mio corpo longilineo e magro al di fuori dei canoni standard della modellistica dell’abbigliamento industriale.
Tralasciando l’aspetto affettivo, il “fatto a mano” faceva la differenza dal punto di vista fisico.
Spesse volte si vedono degli oggetti con la scritta “hand-made” che non differenziano da quelli “machine-made” per il fatto che costano il triplo. Non si capisce qual è la proposta di valore, se non una presunta preservazione di un posto di lavoro, sicuramente sottopagato e precario, a beneficio della restante parte della catena di fornitura.
Lo stesso discorso si applica ai contenuti (articoli, post, blog, podcast, ecc.) creati con l’ausilio o completamente dalla cosiddetta intelligenza artificiale generativa, venuta all’onore delle cronache con la recente esplosione del fenomeno ChatGPT e similari. Già da tempo, ben prima che noi utenti comuni prendessimo consapevolezza dell’esistenza dei chabot generativi, lo strumento era noto e già ampiamente usato dagli addetti ai lavori nella stesura di contenuti, senza che il pubblico se ne accorgesse o che desse un valore negativo alla cosa.
“Questi contenuti sono stati creati senza l’ausilio dell’intelligenza artificiale” avvisa, con malcelato orgoglio, qualche sito o podcast. Inizi fiducioso la lettura o l’ascolto, salvo poi interrompere poco dopo perché di valore non se ne trova la benchè minima traccia.
La questione, come per la produzione di oggetti fisici, non è lo strumento con il quale è generato o fabbricato un articolo o una cosa, ma se il contenuto o l’oggetto ti trasmette qualcosa oppure no.
“Il fine giustifica i mezzi”, diceva un famoso pensatore del passato. Che a volte è bene non dimenticare.